giovedì 5 gennaio 2012

La certezza del mattino

La strada per Combes-la-Ville era larga, assolata e polverosa. Naturale che lo fosse; era il 1873 e le strade francesi di campagna non avevano molto a che vedere con i marciapiedi lastricati che si potevano trovare à Paris. Si poteva quasi dire che nulla fosse cambiato da secoli a questa parte: alberi a sinistra, un fossato e un muro di cinta a destra, il villaggio appena visibile in lontananza, un paio di vetture e qualche anima laboriosa intenta al lavoro dei campi. Oltre alle infinite distese di pascoli e a un silenzio interrotto solo dallo scalpiccio dei cavalli e dal cinguettio degli uccelli, chiaramente. Insomma, niente a che vedere con la sua Paris, dove tutto era luce, sregolatezza, caos e divertimento, dove perfino osservare una giovane donna che attraversava la strada costituiva una fonte d'ispirazione* - chissà chi era, chissà cosa sarebbe diventata non appena le luci abbaglianti del giorno avessero lasciato spazio a quelle più soffuse e complici della notte. La strada per Combes-la-Ville non si distingueva in nulla, tranne forse per quella luce, per quel cielo e per quelle nubi che lì, proprio in quel momento, lo facevano fremere di tensione emotiva. Una cosa difficile da spiegare a chi non era del mestiere, a chi non avrebbe prestato altro che un fuggevole sguardo. Quel desiderio quasi incontenibile lo afferrava, lo trascinava nel suo gorgo, lo esortava a prendere in mano pennelli e colori. Era un'esigenza: imporre alla gente la sua visione del mondo. Era la necessità di catturare l'attimo, come la resina cattura l'insetto. Ma non era solo quello, no. C'era molto di più; c'era il desiderio - il delirio - di voler far proprio un qualcosa che non appartiene a nessuno. Rivelare al pubblico qualcosa che ancora non ha colto. Un concetto simile, come spiegarlo a chi non lo avvertiva vibrare dentro di sé? Il solo confessarlo con parole più semplici a orecchi profani sarebbe parso blasfemo. Eppure, aveva osservato spesso gli artisti di strada e soprattutto i passanti incuriositi. Aveva scrutato quei volti, quelle espressioni di genuina curiosità, aveva ascoltato le parole d'incoraggiamento che rivolgevano al disegnatore di turno e aveva intuito che forse - forse! - anche la gente semplice era sensibile a quelle cose, solo che le mancava il genio artistico necessario a esprimerle. Era come se l'artista possedesse la chiave per entrare nei cuori della gente, per parlare con quella parte così intima che altrimenti sarebbe rimasta silenziosa. Ovviamente, non era un assoluto. Il dono del parlare con un linguaggio universale non era per tutti; alcuni restavano solo volgari imbrattatori, pallidi imitatori di una realtà muta, nient'affatto ricca di significati. Lui si era spesso domandato a quale gruppo appartenesse, perché nonostante la sua fama, a volte si sentiva piccolo e meschino davanti all'incalzante dialogo del mondo; sentiva difficile riprodurre davvero con sincerità quello che la sua anima carpiva così facilmente. Forse allora non era poi così facile capire... era un artista? O piuttosto un volgare riproduttore? Tante domande, nessuna risposta concreta. Neppure parlare con i suoi amici - quelli che di arte ne capivano davvero - gli bastava. La ricerca della sua identità era una strada in salita, ma intendeva percorrerla fino in fondo. Almeno non si avrebbe potuto dire che era un codardo.
Dispose il cavalletto, la tela e tutto il necessario. Normalmente, per cogliere l'attimo avrebbe usato carta e matita; avrebbe fatto qualche schizzo, magari uno studio e più tardi il quadro vero e proprio. Ma in quel momento, lo sentiva, non era necessario. I particolari di quella vista erano tutti impressi nella sua mente. La cosa più importante di quel dipinto, infatti, avrebbe dovuto essere la luce, il gioco di luci, di colori, il movimento brioso delle nuvole, il fermento della strada. Non erano poi così importanti la posizione degli alberi, dei campi, quanto l'intensità di ciò che accadeva sopra di essi e sulla strada. Era lì che tutto si svolgeva; era quello ciò che voleva cogliere. Il turbinare delle nubi nel cielo e della polvere sollevata dal transito delle carrozze. Tutto il resto era pura cornice. Il movimento e la luce intensa del mattino. Sì, pensò, il primo tratto avrebbe dovuto essere ocra.
* riferimento al dipinto di Boldini "Attraversando la strada" (1873-75), olio su tela
La grande strada a Combes-la-Ville
La grande strada a Combes-la-Ville (1873), olio su tela
Non so, forse avrei dovuto iniziare questa specie di racconto breve con un'introduzione, ma mi pareva di togliere qualcosa alla sua spontaneità, di renderlo eccessivamente pomposo. Quanto ho scritto è il frutto di una mia impressione sulla veduta di Boldini (1842-1931), intitolata appunto "La grande strada a Combes-la-Ville". Purtroppo, come sempre accade, vederla qui non rende nettamente l'impressione di vitalità che invece suscita il vedere l'opera dal vivo. Un po' come con i concerti, succede anche con i quadri. Ricordo che averla sotto i miei occhi aveva suscitato in me la netta sensazione di poter quasi cogliere il pensiero di chi l'aveva dipinta ormai più di cent'anni prima. Naturalmente, non mi illudo di essere stata corretta nell'interpretare quel pensiero, ma forse non ha molta importanza. Diciamo che si tratta di una libera interpretazione di ciò che l'artista avrebbe potuto pensare, unita ad una sorta di irragionevole certezza: che quel quadro fosse stato dipinto nelle prime ore di un mattino quasi estivo, quando la luce del sole è forte, calda e avvolgente. Da questo deriva anche il titolo del racconto. Questione di presunzione?

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