giovedì 5 gennaio 2012

Fanculo, mi hanno rubato il sogno!


Dal mio vecchio blog: 
Breve racconto fine a se stesso, nato da alcune discussioni ascoltate qua e là e dal fatto che questa notte davvero ho sognato qualcosa che ancora non riesco a ricordare.
A volte i sogni sembrano reali. Succede: un ambiente familiare, volti già visti, situazioni già vissute; capita che il sogno riproduca più o meno verosimilmente la realtà. Spesso sono quei messaggi che il nostro inconscio ci invia quando dormiamo ad essere più realistici. Non dico che possano davvero trasformarsi in realtà, ma le sensazioni che si provano in quei momenti, quelle sì che sono "reali". Figuratevi quindi cosa succede quando sogni del genere scompaiono dalla vostra mente al momento del risveglio, lasciando solo la stomachevole sensazione di ricordare qualcosa, senza però afferrarla, quella cosa. E' come il prurito dietro alle orecchie dei cani, o sullo zoccolo posteriore della zampa di una giraffa. Una cosa che fa impazzire, perché per quanto ci si possa arabattare, quel punto preciso non si riuscirà mai a raggiungerlo. Comunque, lo ammetto, non ho idea di cosa possa provare una giraffa col prurito agli zoccoli; in verità, in assenza di terminazioni nervose, dubito che gli zoccoli di qualsiasi animale possano prudere, ma è il concetto che conta.
Mi chiamo Jack e questa notte qualcuno, o qualcosa si è fregato il mio sogno. IL MIO SOGNO, porca troia! E ovviamente quand'è che lo scopro? Mentre sono in bagno, seduto sul water. Come rovinarsi la giornata. Reduce da una delle dormite migliori degli ultimi giorni e al risveglio zac! non c'è più. No non c'è più il sogno, quello è ovvio; non c'è più il suo ricordo. E come se potesse esserci di peggio, mi rovina anche stare al cesso. Come lo so? Ho un unico dettaglio ancora integro nel mio cervello, una frase detta da qualcuno di cui non ho presente la faccia. Dice: "Non dimenticarti, eh?". Cazzo! E dire che di solito le mie sinapsi funzionano bene per queste cose. Cosa? Come faccio a sapere che è importante? Non lo so, lo sento. E' il prurito di cui parlavo, quella cosa che dovrei raggiungere e che non riesco neppure a vedere.
Mi alzo dal water del tutto smonato. Fuori è bello, c'è il sole; gli operai del cantiere hanno già iniziato a lavorare. Di sicuro loro non perdono tempo con queste cazzate da psicopatici come ricordare i loro sogni... gente fortunata, gli operai.
Guardo lo specchio e vedo un essere raccapricciante che mi scruta; barba scura, incolta, occhiaie spaventose circondano un paio di occhi scuri, espressione allucinata, capelli arruffati... secondo me gli puzza pure l'alito. In effetti, è così perché quel coglione allo specchio sono io: Jack, 30 anni, lavoro part-time in una piccola società di pubblicitari; ragazzo di Emma, fidanzata storica dei tempi del liceo. Sì, c'è tutto. Mi sento l'alito: cavolo! Ci stenderei un muflone. Ok, niente autocommiserazione, Jack! E' una giornata di merda, hai perso il tuo sogno e hai l'aspetto di uno che neppure un clochard vorrebbe vicino. Forse è il caso di darsi una ripulita. Mi sfrego la faccia sotto l'acqua gelida e intanto cerco di ricordare altro. Chissà, magari riesco ad afferrare qualche dettaglio significativo. In effetti c'è: è la sensazione che quel qualcuno mi abbia parlato di qualcosa di importante che riguarda me. Bah! Altro vicolo cieco. Mi asciugo il viso, afferro il rasoio, la schiuma e intanto che mi faccio la barba, continuo a pensare. Sono sicuro che nel sogno parlava una donna; fosse stato un uomo, sicuramente me lo ricorderei. Ecco l'altro indizio: è sicuramente una donna, perché di solito quello che mi dicono le donne mi entra da un orecchio e mi esce dall'altro; da mia madre alla mia ragazza. Non lo faccio apposta, non sono un bastardo maschilista, cioè non proprio, è solo che proprio non riesco a ricordare quello che dicono: parlano COSI' TANTO! Ma allora perché sembra essere importante?
Guardo l'ora: le 9:30 del mattino. Qualcosa di importate da ricordare... qualcosa di importante... sì, ma cosa, Cristo santo?! E mi taglio anche la guancia. Oggi non è proprio giornata. Finisco di sistemarmi ed esco dal bagno. Mangiare, ecco quel che ci vuole! A stomaco pieno si ricorda meglio.
Schivo la scia di vestiti seminati nel corridoio: le scarpe, i calzini, i pantaloni, il reggiseno... il reggiseno? No, fermate il mondo: il reggiseno?! E di pizzo viola, per giunta! L'ho sempre detto che ho buon gusto! Sogghigno per due nanosecondi, ma la fronte mi si corruga, mentre lo sollevo da terra, afferrandolo per la spallina. E' una terza. Che cazzo ci fa un reggiseno di pizzo viola nel corridoio di casa mia, alle 9:30 del mattino? Emma odia il viola. Qualcosa mi dice che mi sono messo nei guai. Rimetto a terra il reggiseno e, invece di controllare il posto più ovvio dove avrei avuto certezza di una risposta, me ne vado in cucina. Anche lì è un disastro. Bottiglie vuote e bicchieri sporchi campeggiano un po' ovunque. L'odore che aleggia nell'appartamento è qualcosa di improponibile. Spalanco le finestre e mi dirigo verso il frigo. Un reggiseno viola... non ho l'abitudine di comprare certe cose senza che ci sia uno scopo preciso. O forse sì? Jack? Jack?! Jack! Cazzo, muovi il cervello! Anche un cretino ci arriverebbe: se quel reggiseno non è di Emma - e su questo siamo certi - e si trova comunque nel corridoio di casa tua, c'è un'unica risposta. Ecco, adesso sì che sto molto meglio. Decido molto opportunamente di rimandare la colazione e schizzo in camera da letto. La risposta si sta svegliando proprio in quel momento, rivoltandosi tra le lenzuola. Bionda - tinta - apparentemente longilinea, la guardo in faccia: sembra un panda. Il trucco le è colato sul viso e, ne sono sicuro, avrà lasciato anche la "sacra" sindone sul cuscino, ma quello è il minore dei miei problemi.
"Scusa, chi sei?"
Il panda mi guarda con l'aria di chi ha seminato le proprie sinapsi sul cuscino, insieme al trucco.
"Chi sei?" ripeto con una certa ansia. In effetti, per quanto tenti di sforzarmi, non riesco a collocare quel viso tra le mie conoscenze.
"Sandra" farfuglia quella, ricapitolando sul cuscino. Lo sbaffo di trucco si accentua; così sembra un Pierrot visto con gli occhi di Picasso.
Prendo un respiro profondo e cerco di tenere a bada un curioso senso di stringimento alla bocca dello stomaco; ed io sarei quello con il buon gusto?! Ma andiamo! Quella davanti a me è la versione horror di Roger Taylor nel video di "I want to break free", il che è tutto dire. Cosa cazzo ho combinato ieri sera? Come ho fatto a finire a letto con quella... cosa?! Ah, ci sono, devo aver parlato con il suo reggiseno prima di scoparmela. Comunque, recriminare adesso non ha molto senso. Devo trovare il modo di sbatterla fuori.
Improvvisamente, l'idea del mio sogno rubato e della cosa importante che avrei dovuto sapere si avvicinano. Non è ancora chiaro, ma sento che tra poco avrò riacchiappato quel che il mio cervello subdolamente tenta di dimenticare.
"Senti, panda... ehm, volevo dire... Sandra... so che ti sembrerò un po' uno stronzo, visto quel che abbiamo fatto 'sta notte, ma non ho tempo per essere più poetico... non è che potresti levare i tacchi e sgommare?"
Panda apre un occhio e mi fissa - Dio! Picasso sì, ma con la diarrea! - "Eh?"
"Ti sto chiedendo di andartene." Mi spiace essere così cafone, ma in fondo, chi la conosce questa? A quanto pare, da me ha già avuto la sua fetta di beneficenza, adesso il minimo che può fare è togliersi dalle palle.
"Uff! Non voglio!" sbotta lei, che per sottolineare la risposta si gira dall'altra parte.
"Me ne fotto di quello che vuoi. Questa è casa mia, questo è il mio letto. Adesso ti alzi e smammi. Ti do dieci minuti, capito?" Un vero gentleman.
Ultimatum partito, lascio il mostriciattolo e me ne torno in cucina a cercare di dare una parvenza di ordine. Nella mia testa sento avvicinarsi il chiarimento come un treno in procinto di deragliare. E' lì, tra poco avrò l'illuminazione. Cerco invano di afferrare metaforicamente il toro per le corna, ma ancora mi sfugge, il maledetto!
Guardo l'orologio da cucina: le 9:43.
Sento la porta del bagno chiudersi. Panda deve aver realizzato quel che le ho detto, finalmente. Mi sento un po' meno in ansia, ma il sentimento successivo è molto disgustosamente simile al senso di colpa. Non tanto perché io sia uno di quei sciocchi perbenisti che pensano che l'amore vero è monogamo. Tsè! No, figuriamoci. Sono colpevole, sì, ma è che... cazzo, proprio con quella?! Com'è che lo chiamano? Pussy-power? Sarà, ma ancora non riesco a capacitarmi di essermi sbattuto un rospo.
Pochi minuti e Sandra esce dal bagno. Questa volta è vestita e si è perfino rifatta un po' il trucco; bè, adesso che la vedo, capisco che sono stato ingiusto. Non è poi così cessa. Con un paio di bicchieri in più, capisco che il mio senso estetico venga annebbiato, ma non sono poi caduto così in basso. Probabilmente deve avermi attratto il suo sedere. Proprio un bel posteriore, devo ammetterlo.
"Ehm, senti... mi spiace di essere stato così brusco prima." cerco di rimediare alla stronzaggine, ma è un tentativo pietoso.
Sandra solleva un sopracciglio; meglio se sto zitto, sì.
"Non si può certo dire che sei un cavaliere, ma di certo a letto sei peggio." commenta lei, con aria competente. Ecco, questa sì che si chiama stecca. E bella forte, anche. Del resto, vero o meno, non posso darle torto se è un po' incazzata. Incasso e me ne resto in silenzio.
"Comunque, adesso me ne vado. Sbrigati a mettere in ordine, o la tua ragazza si mangerà la foglia."
Ancora intento a riprendermi dalla tuonata sui denti, balbetto un "Cosa hai detto?"
Sandra tira su col naso e mi indica l'orologio. "Ieri sera hai ripetuto una mezza dozzina di volte che la tua ragazza sarebbe tornata oggi, che doveva essere qui alle 10:00"
Ecco, il treno è arrivato. Improvvisamente capisco che il sogno non era un sogno. Emma sarebbe tornata a casa, la nostra casa, quel mattino stesso; anzi, nel giro di un quarto d'ora, visto che arrivava col treno - quello vero - e quello mai che fosse in ritardo una volta tanto.
Inghiotto a vuoto. La casa è un cesso, Sandra è ancora qui davanti a me. Cosa cazzo mi sarei inventato per giustificarmi? Un party dell'ultima ora?
Panico.
Afferro Sandra per un gomito e la invito non troppo garbatamente a togliersi dai piedi in via definitiva.
La porta d'ingresso si apre quasi per magia, neanche ci fosse un contatto telepatico tra me e lei. Sandra borbotta un qualcosa che suona come un "Pezzo di stronzo!" e... stupore! Davanti a noi - a proposito, Sandra ha il suo reggiseno viola in mano - si materializza Emma. Anche il suo sguardo si fissa sul reggiseno, ma temo dalla sua espressione che lo voglia usare attorno al mio collo. O a quello di Sandra. Cerco invano di articolare qualche parola di scusa, qualcosa tipo "Non è come pensi!", ma dalle mie labbra non esce verbo. In compenso però si accende la mia lampadina cerebrale.
Nel mio sogno che non era un sogno, Emma, o meglio, la sua voce registrata dalla segreteria telefonica mi diceva "Tesoro, io torno domani col treno. Sarò a casa per le dieci. Non lasciare le chiavi infilate nella toppa, altrimenti non posso entrare. Mi raccomando, non dimenticarti!". Ecco, adesso tutto quadra, tutto mi ritorna alla mente. Peccato che sia avvenuto con mezz'ora di ritardo.
Sono esattamente le dieci.

La certezza del mattino

La strada per Combes-la-Ville era larga, assolata e polverosa. Naturale che lo fosse; era il 1873 e le strade francesi di campagna non avevano molto a che vedere con i marciapiedi lastricati che si potevano trovare à Paris. Si poteva quasi dire che nulla fosse cambiato da secoli a questa parte: alberi a sinistra, un fossato e un muro di cinta a destra, il villaggio appena visibile in lontananza, un paio di vetture e qualche anima laboriosa intenta al lavoro dei campi. Oltre alle infinite distese di pascoli e a un silenzio interrotto solo dallo scalpiccio dei cavalli e dal cinguettio degli uccelli, chiaramente. Insomma, niente a che vedere con la sua Paris, dove tutto era luce, sregolatezza, caos e divertimento, dove perfino osservare una giovane donna che attraversava la strada costituiva una fonte d'ispirazione* - chissà chi era, chissà cosa sarebbe diventata non appena le luci abbaglianti del giorno avessero lasciato spazio a quelle più soffuse e complici della notte. La strada per Combes-la-Ville non si distingueva in nulla, tranne forse per quella luce, per quel cielo e per quelle nubi che lì, proprio in quel momento, lo facevano fremere di tensione emotiva. Una cosa difficile da spiegare a chi non era del mestiere, a chi non avrebbe prestato altro che un fuggevole sguardo. Quel desiderio quasi incontenibile lo afferrava, lo trascinava nel suo gorgo, lo esortava a prendere in mano pennelli e colori. Era un'esigenza: imporre alla gente la sua visione del mondo. Era la necessità di catturare l'attimo, come la resina cattura l'insetto. Ma non era solo quello, no. C'era molto di più; c'era il desiderio - il delirio - di voler far proprio un qualcosa che non appartiene a nessuno. Rivelare al pubblico qualcosa che ancora non ha colto. Un concetto simile, come spiegarlo a chi non lo avvertiva vibrare dentro di sé? Il solo confessarlo con parole più semplici a orecchi profani sarebbe parso blasfemo. Eppure, aveva osservato spesso gli artisti di strada e soprattutto i passanti incuriositi. Aveva scrutato quei volti, quelle espressioni di genuina curiosità, aveva ascoltato le parole d'incoraggiamento che rivolgevano al disegnatore di turno e aveva intuito che forse - forse! - anche la gente semplice era sensibile a quelle cose, solo che le mancava il genio artistico necessario a esprimerle. Era come se l'artista possedesse la chiave per entrare nei cuori della gente, per parlare con quella parte così intima che altrimenti sarebbe rimasta silenziosa. Ovviamente, non era un assoluto. Il dono del parlare con un linguaggio universale non era per tutti; alcuni restavano solo volgari imbrattatori, pallidi imitatori di una realtà muta, nient'affatto ricca di significati. Lui si era spesso domandato a quale gruppo appartenesse, perché nonostante la sua fama, a volte si sentiva piccolo e meschino davanti all'incalzante dialogo del mondo; sentiva difficile riprodurre davvero con sincerità quello che la sua anima carpiva così facilmente. Forse allora non era poi così facile capire... era un artista? O piuttosto un volgare riproduttore? Tante domande, nessuna risposta concreta. Neppure parlare con i suoi amici - quelli che di arte ne capivano davvero - gli bastava. La ricerca della sua identità era una strada in salita, ma intendeva percorrerla fino in fondo. Almeno non si avrebbe potuto dire che era un codardo.
Dispose il cavalletto, la tela e tutto il necessario. Normalmente, per cogliere l'attimo avrebbe usato carta e matita; avrebbe fatto qualche schizzo, magari uno studio e più tardi il quadro vero e proprio. Ma in quel momento, lo sentiva, non era necessario. I particolari di quella vista erano tutti impressi nella sua mente. La cosa più importante di quel dipinto, infatti, avrebbe dovuto essere la luce, il gioco di luci, di colori, il movimento brioso delle nuvole, il fermento della strada. Non erano poi così importanti la posizione degli alberi, dei campi, quanto l'intensità di ciò che accadeva sopra di essi e sulla strada. Era lì che tutto si svolgeva; era quello ciò che voleva cogliere. Il turbinare delle nubi nel cielo e della polvere sollevata dal transito delle carrozze. Tutto il resto era pura cornice. Il movimento e la luce intensa del mattino. Sì, pensò, il primo tratto avrebbe dovuto essere ocra.
* riferimento al dipinto di Boldini "Attraversando la strada" (1873-75), olio su tela
La grande strada a Combes-la-Ville
La grande strada a Combes-la-Ville (1873), olio su tela
Non so, forse avrei dovuto iniziare questa specie di racconto breve con un'introduzione, ma mi pareva di togliere qualcosa alla sua spontaneità, di renderlo eccessivamente pomposo. Quanto ho scritto è il frutto di una mia impressione sulla veduta di Boldini (1842-1931), intitolata appunto "La grande strada a Combes-la-Ville". Purtroppo, come sempre accade, vederla qui non rende nettamente l'impressione di vitalità che invece suscita il vedere l'opera dal vivo. Un po' come con i concerti, succede anche con i quadri. Ricordo che averla sotto i miei occhi aveva suscitato in me la netta sensazione di poter quasi cogliere il pensiero di chi l'aveva dipinta ormai più di cent'anni prima. Naturalmente, non mi illudo di essere stata corretta nell'interpretare quel pensiero, ma forse non ha molta importanza. Diciamo che si tratta di una libera interpretazione di ciò che l'artista avrebbe potuto pensare, unita ad una sorta di irragionevole certezza: che quel quadro fosse stato dipinto nelle prime ore di un mattino quasi estivo, quando la luce del sole è forte, calda e avvolgente. Da questo deriva anche il titolo del racconto. Questione di presunzione?